la copertina della rivista su cui apparve l

la verità come “adaequatio realis”

in Blondel

pubblicato in Sapienza, vol. 47° (1994), fasc.3 luglio/sett.), pagg. 337/55, col titolo “Blondel e la verità come adaequatio realis”.

L'oggetto del presente articolo è una riflessione[1] sulla concezione blondeliana della verità, quale emerge in particolare in due articoli del 1906 [2], costituenti peraltro la ripresa coerente di tesi già espresse ne l'Action del 1893, e che il filosofo di Aix non avrebbe in seguito rinnegato.

L'idea fondamentale che Blondel vi sviluppa è che la verità non è questione puramente speculativa, ma questione in cui convergono inscindibilmente speculazione e prassi. La verità non può essere semplicemente contemplata, ma per raggiungere il suo pieno statuto, deve essere per così dire agita, fatta, praticata. La verità è certo adeaquatio, “equazione” come traduce il filosofo francese, raggiunta identità; ma i due poli che si “adeguano”, che si “eguagliano”, che raggiungono una unità, superando il dislivello di una precedente differenza, non sono, come nella definizione tomana, il pensiero e la realtà, l'intellectus e la res, il soggetto e l'oggetto: sono invece rappresentati da una serie di coppie che si rapportano in dialettica inesausta, ossia la mente e la vita, la speculazione e la prassi, l'analisi (propria del concetto, della riflessione) e la sintesi (propria dell'intuizione, della “prospection”). Una tale “equazione” non è definitiva né totale: si tratta di un continuo tendere verso una pienezza a cui ci si può asintoticamente avvicinare, ma che non si può afferrare e dominare come un possesso statico. Vediamo più in dettaglio il percorso del Blondel.

le due fondamentali modalità conoscitive

Nei due articoli del 1906 egli tratta in realtà del problema del “punto di partenza” della filosofia, ed è all'interno di tale prospettiva che colloca la sua (nuova) definizione di verità: è dunque necessario seguire questo suo itinerario, per meglio comprendere ciò che intende in merito al nostro tema specifico. Blondel parte con la distinzione di due tipi principali di conoscenza: la conoscenza “diretta” [3], che è “connaissance connaissante”, legata al movimento della vita, nel cui flusso è inserita per anticipare e guidare quanto deve essere fatto, donde il nome di “prospection” (rivolta ai fini, all'agendum) e la conoscenza “inversa”, “connaissance connue”, operante una certa sospensione del flusso vitale, su cui si ripiega, donde il nome di “réflexion” (rivolta alle cause, all'actum). La prima conoscenza è sintetica, abbraccia con sguardo unitario la totalità inesauribile e inoggettivabile della vita, è volta al concreto, all'individuum ineffabile, la seconda è analitica, essa oggettiva, immobilizza e frammenta il suo oggetto (comunque materialiter identico a quello della prima forma di conoscenza), è volta all'astratto, all'ens generalissimum [4].

I due tipi di conoscenza, pur avendo, come appena accennato, lo stesso oggetto materiale, sono cronologicamente non sovrapponibili: nel senso che non è possibile considerare riflessivamente una conoscenza “diretta” mentre questa è in atto; allorché infatti questa si troverà ad essere oggettivata dall'analisi concettuale non sarà più la stessa conoscenza che ha effettivamente guidato l'azione, ma qualcos'altro, un che di artificiale [5]. La “connaissance directe”, la prospection, non può infatti “essere immobilizzata sotto lo sguardo interiore dell'analisi senza essere almeno paralizzata dall'attenzione che la fissa e come uccisa dall'analisi che la decompone” [6]. Di tale conoscenza “diretta” Blondel dice poi che essa è “au service de nos desseins réels et actuels, liée à notre vie totale, tournée vers le futur qu'elle anticipe” [7]; e, ciò che è più importante, assicura che essa basta a risolvere il problema centrale della vita, quello del suo significato: “è in essa e tramite essa che si risolve il problema supremo della vita, di quella vita che non ripassa due volte per il medesimo sentiero, e che si fissa da ultimo una volta per tutte senza possibile ripresa [8].” In questo passo, come si vede, Blondel esplicita in modo particolarmente suggestivo il carattere singolarizzato della conoscenza diretta, in opposizione all'universalità della “riflessione". Tale opposizione emerge del resto in maniera più formale, alloché egli precisa che essa “sfugge alle categorie logiche e alle classificazioni scientifiche” [9]. Notiamo altresì che la prospection non solo è un tipo di conoscenza eminentemente unitaria, sintetica, ma si attua nella misura in cui lo diviene sempre di più [10]. Laddove la riflessione, come abbiamo accennato, “fractionne cette unité vitale” [11], analizza separando i suoi oggetti “come se fossero degli assoluti, necessariamente giustapposti ed esterni gli uni agli altri” [12].

Dobbiamo allora vedere in Blondel una ripresa dell'antiintellettualismo di Bergson, con cui esiste, come si vede, più di una consonanza, anche terminologica? Lui stesso si premura di precisare, nel corso del presente articolo [13], la sua posizione nei confronti del filosofo de L'évolution créatrice: a distanziarlo dall'intuizionismo bergsoniano è, dichiara Blondel, la sua fiducia nella naturalità e nella positività del concetto, della riflessione; per lui la conoscenza analitico-concettuale è necessaria e valida, purché non la si pretenda esclusiva. Sbaglia perciò il Bergson a privare di ogni valore rivelativo la conoscenza concettuale: “il ne sert à rien de déprécier la réflexion, afin de remédier aux doctrines qui l'exaltent trop exclusivement” [14]. Il pensiero non può essere ridotto ad “artificio, al servizio delle parzialità dell'azione” (ibidem). E, ancora, Blondel ammonisce che la vera azione non è senza pensiero [15], che il concetto fornisce un apporto insostituibile alla vita, e che esso è “una condizione essenziale dello sviluppo dell'essere e della verità in noi”[16]. Inutile e pernicioso sarebbe perciò disprezzare la dimensione analitico-concettuale: si finirebbe coll'inficiare la stessa portata realistica della conoscenza in quanto tale [17].

Se parziale e inaccettabile è la svalutazione della connaissance inverse, operata dall'intuizionismo, egualmente condannabile è l'esclusiva affermazione del concetto, la pretesa autosufficienza della riflessione concettuale, operata dalla “filosofia dell'idea” e dalla “filosofia critica": in tal modo non si riuscirebbe più a ricostruire la realtà nella sua unitarietà e nella sua fluente continuità, che è invece la modalità originaria con cui essa ci si dà [18]. Idealismo, razionalismo e criticismo, per inseguire qualcosa di secondario, si vedono costretti a rinunciare al dato primario e fondante [19], e ciò, per Blondel squalifica senza appello tali impostazioni.

prime osservazioni

1. Possiamo già sostare con qualche considerazione interpretativo-valutativa su quanto finora delineato. Chiediamoci in primo luogo come vada intesa la connaissance directe: può essere ritenuta una trascrizione in termini attualizzanti della conoscenza per connaturalità, di cui già il tomismo parlava [20]? Anche quest'ultima infatti era una conoscenza intuitivo-immediata, e in qualche modo “sintetica"; anch'essa era volta alla prassi, e ai fini (/al Fine) da raggiungere attuando il bene nella circostanza concreta. Non ci interessa impegnarci qui in una disquisizione filologica, ma possiamo in buona approssimazione ritenere che le due ricordate conoscenze siano ampiamente coestensive; ampiamente, ma non totalmente: non può in effetti sfuggire come, mentre Maritain, e altri autori tomisti, circoscrivano la portata della connaturalità (chiamiamola “morale”) all'ambito della prassi, non riconoscendole alcun valore speculativo, rivelativo del reale, Blondel attribuisca alla connaissance directe un'autentica portata conoscitiva dell'oggettivo, anzi proprio a lei assegni una sorta di primato in campo conoscitivo. Abbiamo visto infatti come egli definisca originaria tale conoscenza. Specularmente va per la connaissance inverse, la réflexion: Blondel le riconosce certo una positività, una naturalità e una insostituibilità: la conoscenza concettuale-riflessiva “costituisce un progresso effettivo”, apporta qualcosa che non vi potrebbe essere senza di lei, è “una condizione essenziale dello sviluppo dell'essere e della verità in noi” [21].

2. Tuttavia è particolarmente evidente che, rispetto a Maritain e al tomismo in genere, Blondel tenda a una certa svalutazione del concetto, come emerge dalla identificazione della conoscenza concettuale con l'analisi e con la riflessione. Perché infatti identificare razionalità concettuale e analiticità, se non perché si nega qualsiasi concettualizzabilità di quei tratti unificanti del reale che sono l'essere e i trascendentali? Ma una razionalità concettuale privata di tale conoscenza, sarebbe come un corpo senza testa. In ogni caso tale non è la posizione del tomismo, che vede nella stessa intelligenza concettuale un potere di sintesi, facente capo ultimamente all'essere, “in quo omnes conceptiones resolvit intellectus". E perché, analogamente, equiparare concetto con riflessione, ossia, poiché così la intende Blondel, con un ripiegamento non sulle cose ma sull'esperienza della “connaissance directe"? In tal modo, in perfetto accordo con quanto appena visto del resto, si priva l'intelligenza logica di un accesso autonomo al reale, come invece non fa il tomismo. Dovremmo altresì chiederci se sia corretto identificare réflexion concettuale con un ripiegamento sul già attuato, in qualche modo quindi sul passato: non è piuttosto il permanente l'oggetto precipuo e centrale dell'intelligenza logica? O meglio non è la realtà in tutta la sua ampiezza, dispiegantesi a partire dal presente, per abbracciare anche, per quanto possibile, passato e futuro? Anche qui non possiamo non trovare una restrizione della capacità conoscitiva concettuale, in rapporto al tomismo: la riflessione infatti è costretta a macinare quanto già mietuto dalla “connaissance directe”, ovvero quanto già direttamente esperito/attuato, perché impossibilitata ad attingere lo stesso oggetto di quella. Non si tratta in effetti di due conoscenze che possano avere lo stesso oggetto: sono diversamente orientate, per riflettere devo orientarmi altrove [22], e la conoscenza concettuale non può “rejoindre l'intuition pratique qui en avait été l'occasion et comme la matière". In ciò, notiamolo en passant, Blondel si rifà alla celebre distinzione pascaliana tra i due “esprits": anche per Pascal, la cui presenza è del resto un'aura permanente nell'opera di Blondel, “l'esprit de géometrie” richiede di voltarsi altrove. Da quale tesi teoretica deriva comunque questa concezione? Ci sembra che essa sia una abbastanza evidente conseguenza del modo con cui Blondel sostiene la presenza conoscitiva dell'essere al pensiero. Se infatti la conoscenza concettuale non ha una “presa” diretta e autonoma sul reale è precisamente per la tesi di un non immediato e per così dire automatico coglimento dell'essere da parte della ragione discorsiva: per lui non si dà, a differenza del tomismo (pensiamo ad esempio a Maritain [23]). Blondel lo tematizza espressamente nella seconda parte dell'articolo, allorché sostiene che i concetti ci possono restituire (in qualche modo) aspetti essenziali della realtà, ma non ci possono far cogliere l'esistenza [24].

Vedremo nelle ultime considerazioni di recuperare l'intentio profundior di queste tesi di Blondel: qui non possiamo che prendere atto della loro originalità e proseguire nell'esame del suo discorso.

la verità come adaequatio realis

In effetti, avendo scartato le due prospettive filosofiche, opposte e parziali, viste nel primo paragrafo, ossia intuizionismo e razionalismo, Blondel delinea come “punto di inizio” della “ricerca filosofica” una inscindibile circolarità tra la sintesi unificante dell'intuizione pratica e l'analisi riflessiva del pensiero speculativo. Nel suo secondo articolo egli, col suo tipico procedimento ad opposizioni polari [25], spiega come da un lato la speculazione abbia bisogno della prassi, della vita, dall'altro la vita della speculazione. Solo così si rispetta l'effettivo e concreto modo di conoscere, che è sempre “simultanément par réflexion fragmentaire et par prospection totale” [26]; mentre pretendendo dividere i due tipi di conoscenza si ottiene qualcosa di insufficiente e di monco: la sola astrazione speculativa infatti non ci dà la “réalité réelle”, e a sua volta la sola intuizione pratica non ci dà “la verité vraie” che è “vue distincte, expressive, utilisable de ce qui est” [27]. Per questo, in particolare, la filosofia speculativa dovrà porsi da un punto di vista unitario, avendo come compito “d'élucider la synthèse intégrale de la prospection” [28]. Viceversa la filosofia pratica dovrà porsi dal punto di vista analitico (della riflessione), avendo come compito quello di “réintégrer en elle toutes les conquêtes fragmentaires de la réflexion” [29]. In tal modo la filosofia vedrà convergere in sé le finora opposte impostazioni e diventerà, qual deve essere, non “uno spettacolo”, un “extrait de la vie”, ma la vita stessa che prende coscienza di sé [30]. Seguiamo allora lo sviluppo delle argomentazioni di Blondel.

Il filosofo di Aix insiste anzitutto sulla necessità di sorprendere la nostra effettiva autocoscienza, scartando le deformazioni teoriche create dai pregiudizi[31], il cui denominatore comune è rintracciato nella tendenza a concepire oggetti di conoscenza nettamente fissati. Blondel spiega appunto che “porsi dal punto di vista sintetico” significa non partire da nessun punto determinato-parziale[32], non arrestandosi a niente che non sia la totalità concreta, effettiva, che costituisce la nostra originaria conoscenza, la nostra esperienza elementare, ad di qua di ogni intervento successivo della riflessione. Questo dato originario non si presenta come la somma di una molteplicità di elementi atomici, ritagliati con netta precisione e risaltanti con distinta chiarezza, ma è piuttosto un tutto indistinto e fluido, o meglio un tutto in cui convivono distinzione e indeterminatezza, fluidità e fissità[33]. Tale origine determina anche l'esito della ricerca, rivelandosi condizione intrascendibile: “né in noi né fuori di noi, se non per una finzione praticamente indispensabile, ma filosoficamente illegittima, si giunge per via speculativa a degli oggetti fissi, distinti e irriducibili, a degli atomi di coscienza o di sostanza” [34]. Ne consegue che la filosofia non si proporrà più di “scoprire al termine delle sue regressioni degli elementi definiti una volta per tutte, dei concetti dai contorni ben netti come lo sono in apparenza quelli di un cristallo, delle formule che permettono, con l'aiuto di questi materiali, di ricostruire idealmente la realtà considerata come un sistema chiuso” [35]. “Poiché vi è sempre del nuovo nel mondo -avverte Blondel- non è possibile cogliere l'essere in stato di quiete (au repos), in una definizione puramente statica, se non mediante una visione altrettanto frammentaria e snaturante di quella che è la fotografia istantanea di una rondine in volo” [36]. Blondel si spinge a dire che “la filosofia, dal suo inizio, tende al movimento perpetuo e non cerca fissità se non nell'orientazione del suo cammino”[37]. Poniamoci, prima di proseguire, una questione, relativa alla semantizzazione del termine essere: quale essere non è coglibile au repos , “in una definizione permanentemente statica”? Certamente non si tratta dell'essere di cui parla la Scolastica, e Tommaso in particolare, dell'essere come analogo e trascendentale, cioè, se così possiamo dire, come in qualche modo universale, e come tale colto nella sua stabilità[38]. Piuttosto per essere Blondel intende qui denotare il reale nel suo immediato darsi, come concretezza singolare e come totalità risultante dall'insieme di tutte le realtà singolari. Abbiamo già sopra notato[39] che Blondel non parla di una concettualizzabilità dell'essere, per cui non ci stupisce che qui si mostri conseguente; comunque (dal punto di vista teoretico, che più ci interessa) il livello di essere, concreto-singolare, che egli focalizza non è, intrinsecamente, esclusivo di quello universale, o meglio analogico e trascendentale. Lui stesso in ogni caso precisa che, se questa sua tesi può recuperare l'aspetto positivo di quelle filosofie contemporanee che attribuiscono un peso considerevole al divenire, bisogna guardarsi dal “fare del fieri stesso un nuovo esse; non bisogna erigere il movimento considerato nella riflessione come entità fissa"[40].

L'originaria percezione quindi, chiosiamo noi, è qualcosa di totale: non scissa unità dell'intera conoscenza, concettuale e intuitivo-vitale, e dell'intera realtà, al contempo strutturata e fluida. Se si trascura uno dei fattori, si cade inevitabilmente in prospettive distorcenti ed erronee. Infatti a questo punto Blondel evidenzia le opposte ed egualmente inaccettabili alternative a cui si dovrebbe giungere se non si ammettesse il suo nuovo concetto di verità, ovvero se si tranciasse uno dei poli che compongono il tutto. Se infatti i due poli che devono essere adaequati, livellati, resi in qualche modo uno, fossero un pensiero puramente concettuale-discorsivo e una realtà affatto eterogenea al logos, delle due l'una: o si cristallizzerà il mobile (cioè il reale), come in qualche modo tende a fare il razionalismo, o si mobilizzerà il fisso (cioè il pensiero, che diverrebbe così qualcosa di anarchico), come in qualche modo tende a fare l'intuizionismo [41]. In realtà allora bisogna evitare di ritenere pensiero ed essere due sfere eterogenee, ambito l'una di una cristallizzata definitività, l'altra di una inafferrabile fluidità.

Piuttosto bisognerà riconoscere che i due poli che devono essere “in qualche modo” unificati non sono l'uno di fronte all'altro, estrinseci e giustapposti [42], ma sono due fattori in dinamica circuminsessione, il pensiero e l'azione (/la vita): un pensiero che non è statico rispecchiamento di atomi logici compiutamente definiti, e un'azione che non è oscuro magma in caotica dispersione. “Anteriormente a qualsiasi pregiudizio speculativo, ciò che ci è dato, non è nè il fisso nè il mobile; nè il relativo, nè l'assoluto; ma ciò che Malebranche chiamava 'l'inquietudine', stato di equilibrio perpetuamente instabile o di intima sproporzione, tale che ogni sforzo tentato per soddisfare delle esigenze antecendenti che si manifestano spontaneamente al pensiero rivela esigenze ulteriori che si impongono moralmente all'azione”[43].

L'equilibrio verso cui continuamente essere protesi è tra l'implicito (ossia l'azione, l'istanza vitale-oggettiva) e l'esplicito (ossia il pensiero). E il reale a cui il pensiero è chiamato ad “adeguarsi” non è, per così dire, il reale-in-sé, ma il reale-per-me, quel reale cioè con cui ho a che fare nell'azione, anzi quel reale che è la mia azione. Infatti Blondel definisce l'azione come ciò che deve essere conosciuto, la pietra di paragone del pensiero, la “cosa”: “l'x da determinare non è dunque un oggetto ipotetico, una finzione ideale; è la realtà immanente che racchiude (enveloppe) l'origine e il termine di cui il nostro pensiero attuale è l'effetto e il mezzo. E per designare questa mescolanza di virtualità oscure, di tendenze coscienti, di anticipazioni implicite, il termine azione sembra ben scelto (bien choisi); poiché esso comprende ad un tempo la potenzialità latente, la realizzazione conosciuta, il presentimento confuso di tutto ciò che, in noi, produce, chiarisce ed alimenta il movimento della vita” [44]. Con il termine azione quindi egli designa qualcosa al contempo di più ampio e di più pregnante di quanto comunemente si intenda: è “la realtà immanente” (la réalité immanente), la realtà non in quanto è in sé, ma in quanto offerta a me, per-me [45]. Si tratta, chiarisce poco dopo, di una realtà “che racchiude l'origine e il termine di cui il nostro pensiero attuale è l'effetto e il mezzo”: non è il pensiero ad avvolgere il reale-azione, ma è questo ad avvolgere il pensiero; in altri termini il pensiero è incluso nel flusso della vita, in qualche modo esaurisce il suo compito nel suo esser funzionale ad essa, come già aveva detto nell'Action, per cui la metafisica “è qualche cosa nel progresso dinamico della volontà"[46]e il “pensiero parte dall'azione per arrivare all'azione"[47]. Così Blondel enuncia la sua definizione: “All'astratta e chimerica adaequatio speculativa rei et intellectus si sostituisce la ricerca metodica di diritto, l'adaequatio realis mentis et vitae."[48]. Piuttosto che “mirare anzitutto a conoscere, e a conoscere degli oggetti”, la filosofia dovrà perciò procedere dal bisogno di colmare quella sproporzione che ci costituisce (tra mens e vita, tra pensiero e azione, tra esplicito e implicito)[49].

Per meglio comprendere come questa definizione di verità non glissi verso un relativismo pragmatistico, si potrebbe osservare in primo luogo che la suprema serietà con cui un soggetto è costretto [50], pena una tragica lacerazione, a considerare la propria vita, costituisce una prima garanzia del carattere non biecamente utilitaristico della verità cercata dall'intelligenza. Ma più ancora, per comprendere fino in fondo come Blondel non pensasse con questa sua tesi di legittimare un atteggiamento pragmatistico, bisogna ricordare la sua concezione della volontà come apertura alla totalità, insopprimibile tensione all'assoluto, come tale insaziabile del finito [51]; se la volontà che entra nel dinamismo conoscitivo è intrinsecamente animata da tale tensione, non si dovrà temere che essa, se fedele a tale sua profonda natura, fletta il pensiero verso un'immediatezza parzializzante: il reale-per-me non è una deformazione del reale, ma è l'affiorare dello stesso essere in sé dentro l'orizzonte della mia vita. Lo stesso Blondel comunque si premura di precisare anzitutto che l'azione di cui egli parla non è cieco inseguimento di piacere e di benessere vitalistico, confuso ribollire di istintività, ma è armonia strutturata, e perciò ambito permeato di intelligibilità, in intrinseca continuità con il logos [52]. In secondo luogo lui stesso aggiunge che da lì è possibile riguadagnare pienamente l'oggettività: “Ponendo il problema dell'equazione interiore, la filosofia pone al contempo il problema della realtà universale, sotto la sola forma in cui esso possa essere risolto. Dal me apparente al me integrale vi è in effetti un infinito da superare (franchir), da riempire. Per eguagliarmi (m'égaler) e possedermi, ho l'universo e Dio da mettere in questo bisogno di essere, di eternità, di felicità che mi costituisce” [53]. è insomma attraverso l'interiorità, l'immanenza che si attinge l'esteriorità, la trascendenza oggettiva. Infatti, prosegue Blondel, “noi non potremmo (saurions) restituire gli esseri come sono in sé, se non lavorassimo ad ammetterli (les admettre) in noi” cercando una reciproca adattazione [54]. E come solo in noi le cose diventano per noi in sé, così “noi ci troviamo davvero solo nell'unione col tutto” [55]. Insomma se solo nell'interiorità l'esteriorità può essere davvero guadagnata, è altrettanto vero che per essere sé stessa la prima non può esimersi dal riconoscere l'insopprimibile importanza della seconda: come l'essere in sé viene riconosciuto solo come essere in noi, come essere che ci si offre e ci riguarda, così noi non possiamo essere autentici se non in una cordiale e leale apertura all'essere-in-sé, alla totalità nella sua oggettività.

Blondel affronta poi un'ultima difficoltà, inerente alla sua proposta: non si rischia forse, ponendo la verità in equilibrio sempre da perfezionare, in una tensione continua piuttosto che in un possesso, di scivolare verso “una sorta di amorfismo”, in una indeterminatezza inquieta e incapace di raggiungere il termine che pure le dovrebbe essere proprio? La sua risposta non concede molto all'obiezione: sostanzialmente egli nega che ciò costituisca, se debitamente inteso, un vero problema. Egli controbatte infatti che “non si tratta di costruire un sistema chiuso o una teoria che basti a sé stessa, di pretendere di accaparrare l'infinito in una formula fissa (fixée)” [56]: ci deve invece bastare “fornire alla pratica l'orientazione, la luce, la verifica utili al progresso sempre solidale del pensiero e della vita" [57]. La speculazione infatti non è parallela alla vita, non è un suo doppione (un doublet), non le è esterna, ma si interseca in inscindibile circolarità con essa[58], per cui “la verità, quella vivificante e reale, non è un sistema di cui ci si possa impadronire (emparer) solo ragionando (rien qu'en raisonnant); non si entra nella conoscenza del reale che unendo il metodo ascetico allo sforzo speculativo” [59]. Ciò dicendo Blondel fa forse professione di modernistica rinuncia al vero assoluto? Non ci sembra che sia questo il punto: egli non nega l'attingibilità della verità, nega piuttosto una sua attingibilità puramente speculativa (rien qu'en raisonnant), e nega anche, certamente, che la verità raggiunta si configuri come pienezza totale, insuperabile. La verità che ci è data è la verità che ci occorre per vivere, la verità che Dio sa occorrerci per vivere, perché così Lui stesso ha voluto, perché questa vita non è la definitività, ma una “prova”, un passaggio. Il che non esclude affatto che nello stesso vivere sia implicato come ingrediente essenziale anche una pregustazione della verità piena e totale, che ci sarà data in modo esaustivo nella vita eterna; solo che di pregustazione e non di pieno possesso si tratta.

valutazioni teoretiche

Qual è il valore di queste tesi di Blondel? Dovremmo anzitutto chiederci che cosa cerchi Blondel di salvare, quale esperienza miri a giustificare, fondandola teoreticamente. In secondo luogo, se avremo appurato che tale esperienza è qualcosa di ineludibilmente reale, dovremo chiederci se la via da lui scelta per renderne ragione sia pienamente adeguata.

I. il problema

a. Risvolto filosofico-soggettivo. Alla prima questione non è difficile rispondere: Blondel mira anzitutto a spiegare quel fenomeno umano che è, per così dire, la mutevolezza, la volubilità (nel duplice senso di capacità di evolvere e di dipendenza dal volere), l'instabilità della concreta e integrale consapevolezza umana [60]. Intendiamo dire che la consapevolezza umana può essere stabilmente fissata su settori intelligibili astratti (come quelli del sapere matematico, scientifico o tecnico) o su realtà concrete circoscritte, ma è inevitabilmente mutevole in rapporto alla totalità concreta, cioè in rapporto all'essere-per-me dell'essere. Questo è anzitutto un fatto, che chiunque si esamini con sincerità non potrà negare. Se poi di questo fatto volessimo trovare un perché dovremmo dire che la totalità concreta è ciò in rapporto a cui si esercita la nostra alternativa fondamentale, per dirla con Blondel, la nostra scelta ultima; e in rapporto alle scelte ultime della nostra vita il coinvolgimento della volontà è inevitabilmente forte, la temperatura emozionale inevitabilmente alta, perché alta è la posta in gioco: y-va-t-il de l'honneur? Y va-t-il de la vie? Il y va de bien plus! Temporis aeterni quoniam, non unius orae ambigitur status... Per questo l'intelletto subisce necessariamente l'interferenza [61]della sfera affettivo-volizionale. La quale sfera è per eccellenza l'ambito del mutevole: nessuna scelta fondamentale può essere ritenuta definitiva, scontata: militia est vita hominis super terra [62].

Questo dunque il fatto. E che tale fatto meritasse una più degna considerazione ci pare indiscutibile: non si può certo dire infatti che le impostazioni filosofiche cristiane predominanti allorché Blondel visse dessero adeguato spazio a tale fenomeno. Non è negabile in particolare che l'impianto di certo neotomismo privilegiasse un tipo di conoscenza astratta, in cui l'intelletto non fatica a contemplare la verità in sé, passeggiando indisturbato nei fioriti giardini di una olimpica e perennemente soleggiata stabilità, in cui mai soffia vento di dubbio o di ribellione, mai si addensano le fosche nubi della paura e del risentimento. Tale sarebbe forse stata la condizione della intelligenza umana se non ci fosse stato il peccato originale. Tale comunque non è la condizione effettiva della nostra concreta intelligenza. Il pretendere poi di censurare la sua condizione effettiva di esercizio, notiamolo en passant, non è senza conseguenze (“perch e' non torna tal qual e' si move”): ci si può illudere che il pensiero dia, da solo, un reale possesso dell'oggetto pensato. Ma aver compreso concettualmente che cos'è la santità non significa essere effettivamente santo, come capire che cos'è la salute non comporta necessariamente l'essere sano. E un pensiero, che dispensasse da un coinvolgimento globale con la carne e il sangue della realtà, non sarebbe un pensiero realista, anche se teorizzasse il realismo.

b. Risvolto teologico-oggettivo. Non è tutto: se il fenomeno della volubilità/evolvibilità della consapevolezza è qualcosa di accessibile dalla semplice ragione naturale, Blondel, filosofo cattolico, sa ed ha ben presente nella sua stessa costruzione filosofica che non è questo il vero volto delle cose, sa che passa la figura di questo mondo. Lo ricorda lui stesso: “la courbe de notre existence est à peine ébauchée: nondum apparuit quid erimus. Ne traitons donc pas comme un être achevé l'embryon que nous sommes: initium aliquod creaturae[63]. Con un esempio molto suggestivo Blondel paragona la sproporzione della nostra conoscenza attuale (in particolare nella sua dimensione concettuale) in rapporto alla totalità del Reale, all'ascolto di una sinfonia di Mozart, in cui si percepisse una nota ogni ventiquattro ore: certo le note percepite sarebbero per così dire giuste, dal punto di vista melodico non vi sarebbe falsità, ma la lentezza del ritmo falserebbe la percezione dell'insieme. Allo stesso modo i concetti con cui sfaccettiamo il reale non sono falsi, ma nella misura in cui pretendono di fissare la realtà in una frantumata analiticità in qualche modo la alterano, non consentendo di cogliere l'insieme. Nella vita presente non ci è dato di ascoltare la sinfonia dell'essere al ritmo giusto: non si tratta di rifiutare le note(/i concetti) quali li percepiamo, ma di essere consapevoli della loro imperfezione. La verità piena e totale dell'essere apparirà solo con la manifestazione gloriosa del Verbo incarnato, nella Sua seconda venuta: fino ad allora ciò che vediamo e comprendiamo è, per la fede cristiana, un semplice abbozzo, per dirla con Blondel, il rovescio dell'arazzo, per dirla con de Lubac, o, per riprendere un termine ellenico, doxa [64].

Da questo primo, peraltro duplice, ordine di considerazioni, che potremmo definire della debolezza dell'intelletto speculativo, ovvero della sua non autosufficienza al coglimento dell'intera verità[65], la verità stessa del finito essendo in fieri, scaturisce il secondo polo teoretico, l'importanza decisiva della verifica pratica, della volontà: “I dati oggettivi sono dei mezzi per adattare con più precisione ed estendere la nostra azione al suo contesto (milieu) e ottenere, al seguito di una azione meglio adattata, una nuova conoscenza più ricca, più comprensiva, una familiarità più intima con la realtà complessa in cui si muove la nostra vita. Non è direttamente riflettendo sulla riflessione e i suoi oggetti, è agendo secondo le nostre idee riflesse e le nostre conoscenze oggettive che arriviamo a pensare meglio” [66]. “La conoscenza non va nel senso della verità che divenendo un appello all'azione e raccogliendo la risposta dell'azione”[67].

II. interpretazione

Chiediamo ora: fin dove si spinge Blondel per cercare di fondare tali risvolti esperienziali, filosofico-soggettivo e teologico-oggettivo? Non si spinge fino a negare che si dia un livello naturale di verità, negando qualsiasi valore al concetto: abbiamo già visto sopra come nella sua critica a Bergson egli affermi la naturalità del concetto, la sua non artificiosità; più oltre abbiamo anche ricordato come egli sostenga la insostituibilità del concetto, apportatore di un tipo di conoscenza non attingibile per altra via; aggiungiamo ora che Blondel giunge a riconoscere che le rappresentazioni mentali colgono degli aspetti oggettivi della realtà. Lo riconosce col suo tipico modo di procedere ad opposizioni polarmente complementari, in un modo che potrebbe sembrare sfuggente, ma che più semplicemente richiede capacità di attenta riflessione: i concetti, le rappresentazioni intellettive contribuiscono “a farci conoscere e possedere questa realtà concreta, di cui esse non sono tuttavia parti integranti “[68]. Dunque la ragione concettuale coglie “aspetti” della realtà, ma non ne coglie le “parti integranti”, ovvero gli “elementi costitutivi”, gli “atomi".

Il punto fondamentale ci pare proprio questa distinzione, che Blondel non approfondisce quanto meriterebbe, tra concetti come “aspetti”, gli unici di cui Blondel ammetta il valore, e concetti come “elementi”, che a suo parere altro non sarebbero che illusione, fittizia pretesa. In che senso allora intendere “aspetti” ed “elementi”, ovvero “atomi"? Al filosofo di Aix importa giungere alla conclusione di una non-autosufficienza della pura speculazione: egli è esplicito nel dire che solo concependo i concetti come aspetti si potrà costringere il pensiero speculativo a sposarsi con l'azione [69]; laddove, se ne deve evincere, l'illusione che la verità sia attingibile per via puramente speculativa si fonda sulla convinzione del carattere “atomico” dei concetti. I concetti intesi come “atomi”, possiamo ancora aggiungere, hanno una “pretesa ontologica” [70]: quale? Quella, ci spiega Blondel, di rispecchiare, se così possiamo dire, dei grani, dei quid di realtà nettamente circoscritta e stabilmente fissata, mentre -egli ammonisce- “contrariamente a quello che siamo tentati di immaginare, le rappresentazioni dell'intendimento dai contorni ben stagliati (arrêtés), le nozioni logicamente definite, non sono la misura di ciò che conosciamo delle cose” [71]. E ciò perché la realtà stessa “non è fatta dalla somma di pretesi elementi” soggetttivi o oggettivi, ma “è fatta dalla sintesi delle relazioni multiple analizzata dalla riflessione sempre discorsiva ed espressa, nella sua verità superiore, da una intuizione che ne è la causa finale e la ragion d'essere"[72]. Se i nostri concetti non possono essere concepiti come elementi, è perché altrimenti sarebbe smentita quella organicità del pensiero logico alla vita che, abbiamo visto, è per Blondel una esperienza inestirpabile; ma per poterli concepire come aspetti, cioè come qualcosa di non-intrinsecamente-autosufficiente Blondel è portato a negare che la stessa realtà oggettiva sia qualcosa di articolato in una molteplicità di centri ontologici almeno relativamente stabili e chiaramente stagliati dal contesto totale: non ci sono elementi del pensiero perché non ci sono elementi della realtà; e come il pensiero è qualcosa di fluido e di unitario, così lo è la realtà stessa: “sintesi” non di sostanze, ma “di relazioni multiple".

Sintetizziamo qui, per chi fosse amante di sinossi schematiche, il filo del discorso più propriamente teoretico del Blondel.

 

III. valutazione

1.Vorremo ora svolgere qualche rapida considerazione valutativa. A nostro avviso l'intentio profundior del Blondel è condivisibile, e l'esperienza cui egli si appella è, inclusive se non exclusive, incontestabile retaggio della nostra effettiva umanità. Dove ci sentiamo di dissentire è sullo strumento scelto: l'esperienza di cui rendere ragione è quella della non-autosufficienza del puro intelletto speculativo nei confronti della verità totale, e quindi di una certa qual mobilità, di una incapacità di esaustivo e definitivo assestamento, che caratterizza appunto l'intelletto alle prese col vero. In breve: l'esperienza dell'intelletto è esperienza di mutevolezza (/debolezza). Ora, ci pare sia l'implicito ragionamento del Blondel, se l'esperienza dell'intelletto è mobile (/debole), mobile (/debole) dovrà essere lo stesso intelletto, dunque mobili (/deboli) i suoi ingredienti, ovvero i concetti. I quali, nella loro debolezza/inconsistenza trascineranno la stessa struttura intelligibile della realtà, di cui Blondel è portato a sottolineare, in modo forse un po' unilaterale, l'incompiutezza.

Noi seguiamo Blondel sul primo punto: l'esperienza dell'intelletto è un'esperienza di debolezza, di progressività mai compiuta. Non ci sentiamo di seguirlo nelle successive tappe: perché non è affatto necessario a fondare tale esperienza. Un edificio infatti si può rivelare fragile sia perché i mattoni che lo compongono sono friabili, sia perché, pur essendo quelli ben solidi, non sono interconnessi da un buon cemento, o non sono allineati a regola d'arte: e in effetti non ci pare che sia soprattutto nei mattoni dei concetti che vada cercata la prima radice della inadeguatezza dell'edificio del nostro sapere concreto-totale, quanto piuttosto nel cemento dei giudizi (o nell'imperizia dei ragionamenti). I mattoni/concetti di “sostanza”, di “soggetto”, di “rosmarino”, di “blu” non cambiano nella loro intrinseca determinatezza né nel mio intelletto da un giorno all'altro, da un anno all'altro, né, mi risulta, cambiano all'interno del genere umano da un secolo all'altro. E tuttavia come non cambiano i pezzi della scacchiera, in sé presi, all'inizio della partita e al momento dello scacco matto, ma cambia, e di molto, il loro significato sistemico, così non è necessario che cambino i concetti perché cambi, anche di molto, la loro collocazione nel sistema globale. Certo l'esempio dei mattoni e dei pezzi degli scacchi non è sotto ogni aspetto calzante: per completare il discorso, riconoscendo a Blondel una parte di ragione, bisognerebbe forse aggiungere un esempio tratto dal mondo vivente. In effetti il pensiero non è paragonabile all'inorganico se non ad un certo livello, ma è almeno altrettanto giusto cercare di capirlo paragonandolo all'organico: potremmo allora dire che i concetti, oltre che come dei mattoni, sono un po' come delle molecole, o delle cellule. Una cellula è ben qualcosa di reale, ha una sua struttura determinata e una sua stabilità, ma è al contempo intrecciata da una moltitudine di legami con la complessità del tessuto a cui appartiene, e inoltre può conoscere qualche forma di mutamento.

Questo paragone ci porta, pensiamo, nella direzione giusta: da che cosa dipende in effetti, la vita di una cellula? Dalla vita dell'organismo intero, cui essa appartiene. La sua struttura è identica a quella delle cellule di un altro essere vivente, eppure la morte del vivente cui essa apparteneva trascina con sé la sua morte: fuor di metafora, se i concetti sembrano tanto variare, non è perché subiscano una reale mutazione, se presi nella loro analitica determinatezza, come abbiamo già detto, ma non è forse nemmeno solo per il mutare dei giudizi e dei ragionamenti, come per una meccanica composizione e ricomposizione di elementi (abbiamo già notato l'incompletezza della metafora “edilizia”). Qual è allora l'ambiente vivo, il milieu, in cui come in un oceano in qualche modo “materno e avvolgente” [73] è immersa la conoscenza distinta dei concetti e dei giudizi? Non è forse l'io, la soggettività, che costituisce per ognuno, in qualche modo, “metà” del reale? Quell'io, di cui in effetti noi non abbiamo un concetto né stabile, né esaustivo, quell'io che è sospeso nella perenne lotta tra riconoscimento e negazione del Significato, quell'io, il cui cuore è campo di battaglia tra Cristo e il diavolo?

Dunque potremmo ben ammettere che i concetti siano non solo degli “aspetti” sempre provvisori e cangianti, ma dei veri e propri “ingredienti”, dotati di una almeno relativa stabilità e per così dire di struttura determinata, senza essere perciò costretti a chiudere gli occhi sul fenomeno della fluttuazione del nostro pensiero concreto, e sulla conseguente necessità di una responsabilità continua, sul fatto che ognuno di noi, per un verso almeno, cammina sempre sul filo del rasoio: a spiegare la variabilità del conoscere esistenziale bastano altri fattori conoscitivi, ovvero la dimensione del giudizio/ragionamento (a cui ci siamo richiamati con l'immagine della costruzione edile) e, alla radice, l'oscillazione sempre possibile dell'autocoscienza, che, come un organismo, condiziona la vita delle singole cellule che lo compongono. Insomma non è necessario che siano le parti (i concetti) a condizionare il tutto (la globalità della conoscenza concreta, il cui vertice è l'autocoscienza): è piuttosto il tutto che, non risolvibile esaurientemente nelle parti, le condiziona nella loro risultanza sistemica, senza alterarle nella loro consistenza analitica. Va da sé poi che questo tutto condizionante è in stretta connessione con il fattore volizionale: il concetto che ognuno ha di sé dipende dall'opzione fondamentale con cui decide di impostare la sua vita, ponendo come valore supremo l'indipendenza o la verità totale.

Dicendo questo abbiamo cercato di abbozzare come, anche immedesimandosi nelle motivazioni profonde del Blondel, non è necessario seguirlo nella modalità specifica da lui imboccata. Non è però tutto: vogliamo ora svolgere qualche ulteriore rilievo, più propriamente critico, nei confronti della via scelta dal Blondel, o meglio di una possibile interpretazione di essa [74].

2. a. Da un punto di vista puramente filosofico ci pare si possano fare le seguenti osservazioni. A livello ontologico, anzitutto, la negazione che la realtà si articoli in una molteplicità di centri sostanziali, dotati di intrinseca determinatezza e almeno temporanea stabilità, ci appare inaccettabile, a partire dal semplice motivo che essa contraddice proprio quel senso comune, quell'esperienza originaria, anteriore “ad ogni pregiudizio speculativo”, cui Blondel intende fare riferimento. L'esperienza quotidiana non mi fa mettere in dubbio il carattere sostanziale dell'autobus su cui salgo, della casa in cui abito, del computer che sto usando in questo momento. Non ho dubbi che si tratti di cose, circoscritte in una precisa determinatezza e stabilmente fissate in una permanenza oggettiva (finché almeno qualche causa non le corrompa). Se invece Blondel accentua, in modo che ci sembra francamente esagerato, la mutevolezza e fluidità del reale, è perché egli, quando parla di realtà non intende tanto la realtà oggettiva, ma il nostro soggettivo rapportarci ad essa. Che cosa è infatti tanto fluido? Il reale in sé? Il reale intenzionato dalla conoscenza concettuale speculativa (il Welt, per dirla con Husserl e Scheler)? o non piuttosto il mio rapportarmi pratico al mio Umwelt?

All'incrocio tra ontologia e gnoseologia, poi, osserviamo che egualmente inaccettabile, o perlomeno ambiguo, ci appare il discorso di Blondel sulla attingibilità dell'esistenza da parte dell'intelletto astratto: già abbiamo osservato, ad hominem, che non è necessario limitare di tanto il potere del logos per fondare la debolezza concreta dell'intelligenza, né vi è pertanto da temere che una qualche intuizione intellettuale dell'essere, se debitamente intesa [75], possa costituire, in quanto tale, motivo di orgogliosa autosufficienza della razionalità umana. Più teoreticamente vorremmo aggiungere che, negato l'accesso del logos concettuale all'essere, sarebbe impossibile salvare il carattere realistico del pensiero, poiché l'essere non è un orpello accidentale, un'aggiunta ornamentale alle cose, e alle essenze delle cose, ma è il cuore stesso del reale, è il reale stesso. Che cosa dunque penserebbe il pensiero, se il reale gli fosse precluso?

A livello gnoseologico è vero che la mia conoscenza concreta è mobile adeguarsi, ma mobile adeguarsi a che cosa? Non al Welt, ma all'Umwelt (al Lebenswelt), anzitutto. In secondo luogo la mobilità coinvolge prevalentemente la conoscenza intuitiva, la connaissance directe, piuttosto che la conoscenza concettuale.

2. b. Da un punto di vista più teologico infine osserviamo che è vero che il cosmo non è ancora giunto al suo stadio definitivo (paràgei to schèma tou kosmou toutou!) ed anche che le sostanze non sono separate dell'unico Verbo: in Lui tutto è stato fatto e senza di Lui nulla di tutto ciò, che esiste, esiste. Ma tutto è stato creato nel Verbo, nel Verbo eterno, in Colui che “è lo stesso ieri, oggi e sempre”. E le persone sono comunque, in qualche modo, delle totalità, pienamente e drammaticamente responsabili del loro destino.

Noi crediamo che Blondel, non solo sincero credente, ma cristiano di grande statura etica e spirituale, abbia voluto restare in tutto e per tutto fedele al dogma cattolico [76]. Resta che il tipo di cammino da lui proposto per fondare un approccio concreto al pensare effettivo degli esseri umani non ci pare interamente condivisibile, per i motivi esposti. Se a Dio piacerà, contiamo di tornare su questo argomento con altri contributi, con cui speriamo di mostrare come, positivamente, ci pare dovrebbe impostarsi la questione.

note


[1] Il taglio del nostro discorso vuole quindi essere più teoretico che storiografico, pur cercando di non tralasciare una ricostruzione il più possibile fedele del pensiero di Blondel stesso.

[2] Blondel M., “Le point de départ de la recherche philosophique”, Annales de philosophie chrétienne, 1906, t. I, n. 4, pp. 337/60 (PD1) e t. II, n.3, pp. 225/49 (PD2).

[3] PD1, 340.

[4] PD1, 345.

[5] «Quand je crois étudier ce fait tel qu'il est (ossia, chiariamo, un'azione guidata dalla connaissance directe), en l'isolant, ce n'est plus lui que j'étudie, mais un autre fait que je constitue artificiellement; je n'analyse plus qu'une action abstraite des conditions précises et des fins véritables auxquelles cette action même devait d'être» (PD1, 340). Blondel parla di artificialità a proposito di questa sovrapposizione tra le due conoscenze, il che non ci pare in contraddizione con quanto più oltre dirà, definendo la connaissance inverse, in antitesi al Bergson, qualcosa di naturale.

[6] PD1, 344.

[7] PD1, 341.

8 PD1, 341. Perciò a tale tipo di conoscenza si possono fermare i più ("la plupart des hommes”), senza che alcuno possa dispensarsene ("celle ... dont aucun, pour vivre, ne se passe jamais”, ibidem).

Ricordiamo che in quegli stessi anni il gesuita Rousselot andava sviluppando le sue tesi sull'atto di fede (sfociate poi ne “Les yeux de la foi”, RSR n. 1 (1910), pp. 241/59), che appunto svincolavano tale atto dai requisiti dimostrativi, a cui veniva invece subordinato da molta Scolastica moderna: così facendo egli poteva dare piena dignità teoretica all'affermazione evangelica, secondo cui a Dio è piaciuto rivelare il Suo Regno ai piccoli e ai semplici (ossia coloro che hanno una buona “connaissance directe”) piuttosto che ai dotti, che si fanno vanto dei loro sottili ragionamenti, della raffinatezza della loro “connaissance inverse”.

[9] PD1, 344.

[10] PD1, 344: “elle est donc capable de devenir de plus en plus claire à mesure qu'elle devient de plus en plus synthétique”..

[11] PD1, 344.

[12] PD1, 345.

[13] PD1, 352/5. Cfr. anche La Pensée, Paris 1934, pp. 310/13. Nell'articolo del 1906 Blondel comunque tiene a chiarire che il bersaglio non è Bergson, ma certi aspetti del suo pensiero (PD1, 353, nota 2). Il suo eccessivo deprezzamento della riflessione, da lui ritenuta artificiale, nasconderebbe del resto un ultimo intellettualismo (PD1, 355). Egli cerca “en arrière ce qui, par hypothèse, ne se trouve qu'en avant [nella prospection, osserviamo noi]”.

[14] PD1, 356. Sulla naturalità del concetto cfr. PD2, 243: “Il faut nous passer et nous passons, effectivement, inévitablement, par la réflexion analytique, et elle n'est pas moins naturelle que la prospection synthétique”.

[15] PD2, 241.

[16]PD2, 241.

[17]“Si l'on tentait de se passer de la pensée discursive pour connaître le réel, on aboutirait, qu'on le veuille ou non, à l'irréalité de la pensée et à l'inintelligibilité de l'être” (PD2, 244). Sul fatto poi che non vi sia una subordinazione a senso unico della riflessione nei confronti dell'azione, Blondel chiarisce che “la riflessione è un mezzo della vita solo se è al contempo un fine intellettuale” (PD2, 244).

[18] PD1, 346/52.

[19] PD1, 348: l'esempio che egli porta è quello delle molteplici analisi che si possono condurre del gesto di prendere un foglio carta. Un tale semplice gesto può essere scomposto e fatto oggetto di ricerca concettuale da parte di chimica, biologia, fisica, psicologia: ma tutte tali specifiche indagini suppongono e non possono pretendere di eliminare il dato originale, che appartiene all'esperienza concreta, alla connaissance connaissante, che contiene un di più, inesauribile da quelle. Tutto il resto quindi deve essere in funzione della prospection, per cui “une philosophie qui ne rend pas compte d'une telle connaissance e de tels acts, ne fait que s'attaquer à l'ombre projetée et éparpillée, non au corps même de l'être, dans sa solidité et son intégrité.” (PD1, 348). Perciò, ancora, la filosofia razionalista è “incapable de rendre compte de l'action qu'elle presuppose toujours; incapable de conferer aux données de la perception ou de la science la solidité (..) qui en ferait des êtres vrais” (PD1, 349/50).

[20] Cr. J.Maritain, Quatre essais sur l'esprit dans sa condition charnelle, Alsatia, Paris 1956, cap. 3°, I (tr. it. Morcelliana, Brescia 1978, pp. 103/14). Il filosofo francese vi distingueva quattro tipi di conoscenza per connaturalità: una di carattere intellettuale (ossia l'agilità posseduta da chi è esperto in un certo ambito del sapere, che gli permette di giungere rapidamente e senza passaggi logici a della veraci conclusioni in proposito), e tre di carattere affettivo, ossia la connaturalità del poeta per il suo “oggetto”, la connaturalità del virtuoso all'atto morale, e quella del mistico nei confronti di Dio. Quella che più possiamo equiparare al discorso di Blondel è la terza del nostro elenco, la connaturalità pratica, quella che Maritain chiama anche conoscenza prudenziale, conoscenza per modum inclinationis, che consente a chi è virtuoso di sapere il bene prossimo da attuare in modo immediato, intuitivamente, senza dover ricorrere a procedimenti logici, ma semplicemente “consultando la propria tendenza interiore- questi habitus di temperanza e di giustizia che sono in lui, e che sono lui stesso o qualcosa di lui” (op. cit., p. 104). Sulla connaturalità si può vedere, in S.Tommaso, tra l'altro: Ia, q.1, a.6, ad 3um; Ia IIae, q.32, a.2, ad 3um; IIa IIae, q.45, a.2; IIa IIae, q.51, a.3. Un libro poco conosciuto tratta molto ampiamente di questo tema, Senso e significato di Dom Girolamo Pullo, monaco benedettino (ediz. Codit, Milano 1991).

[21] PD2, 241.

[22] Si tratta di una sospensione del flusso vitale, di un arrestarsi che interrompe la spontaneità intuitivo-pratica, protesa all'azione da attuare (PD1, 343), per orientarsi altrove (“pour me retourner en un sens opposé”, 343).

[23]Si veda ad esempio il suo Court traité de l'existence et de l'existant, Hartmann, Paris 1947.

[24]“Allorché, mediante una esperienza più o meno estesa, abbiamo un po' visto ciò che sono le cose, siamo in effetti tentati di estrarne pressoché subito una pretesa definizione reale e di affermare da allora, in un apriorismo dimentico delle sue origini, che esse sono , senza nemmeno notare che noi mescoliamo in tale asserzione un po' l'astratta esistenza dell'ens generalissimum con un po' delle essenze concrete degli individua ineffabilia: ma si ha un bel fare, questi ingredienti eterogenei non si mescolano” (PD2, 245).

[25] Si tratta di un modo di procedere a cui fa abbondante, anzi pressoché continuo ricorso anche nell'Action.

[26] PD2, 225.

[27] PD2, 225.

[28] PD2, 226.

[29] PD2, 227.

[30] PD2, 227.

[31]Si tratta di considerare ciò che effettivamente pensiamo di essere e di pensare: “avant toute recherche (...) il faut d'abord nous rendre compte de ce que nous avons réellement conscience d'être et de ce que nous pensons en effet”. Si tratta cioè di cogliere le concatenazioni di stati, isolabili solo con l'astrazione (PD2, 229), “discernere i legami che assicurano l'unità della nostra vita mentale” (PD2, 230).

[32] PD2, 228: ovvero non si dovrà partire né dal soggetto, né dall'oggetto, che sono reciprocamente interdipendenti, e non sono atomi dai contorni ben stagliati, e nemmeno da alcuna soluzione parziale (che sarebbe provvisoria e artificiale): devo costantemente “subordonner mon analyse à une réserve suspensive et à une question universelle, qui ne permettent aucune assertion foncière et définitive avant que mon regard ait passé par la perspective de l'ensemble” (PD2, 228). Di fatto nessuno è stato fedele a questo atteggiamento dello spirito, di non privilegiare “un objet matériellement défini”, per trovare nel modo di “envisager l'intégrité des problèmes” il carattere fondamentale della filosofia (PD2, 228).

[33] Cfr. ad esempio “j'affirmerais quelque chose de faux en prenant ce qu'il y a d'arreté et de net dans ma représentation pour ce qui détermine la réalité même de l'objet” (PD2, 230); “Il n'y a point de connaissance absolue du relatif si ce n'est du point de vue du tout” (PD2, 231).

[34] “Ni en nous, ni hors de nous, si ce n'est par une fiction pratiquement indispensable, mais philosophiquement illégitime, on n'aboutit par la voie spéculative à des objets fixes, distincts et irréductibles, à des atomes de conscience ou de soubstance" (PD2, 232).

[35] PD2, 232.

[36] “Comme il y a toujours du nouveau dans le monde, on ne saurait saisir l'être au repos, dans une définition purement statique, que par une vue aussi fragmentaire, aussi dénaturante que l'est la photographie dite instantanée d'une hirondelle au vol.” (PD2, 233)

[37] "la filosofia, dès son point de départ, tend au mouvement perpétuel et ne cherche de fixité que dans l'orientation de sa marche."(PD2, 233)

[38] Certo dell'essere non si può avere un vero e proprio concetto universale, ma una certa concettualizzabilità sì, quale riflesso di quella che Maritain chiamava (nel Court Traité) la sovra-intelligibilità dell'essere.

[39] Vedi p. 3.

[40] PD2, 233.

[41] Si dovrà “ venir à transformer cette mouvance même (questo movimento che caratterizza la realtà) en doctrine arrêtée” (PD2, 234), oppure si dovrà confessare che “dans son effort pour saisir l'insaisissable, pour connaître l'inconnaissable, la philosophie n'est que l'élan, le souffle, l'activité même de l'esprit toujours trascendant et comme extérieur aux formules éphémères dans lesquelles il résume un travail sans cesse à recommencer” (PD2, 234).

[42] L'azione in particolare non va intesa come “un'entità, vista da fuori, nella sua opposizione col pensiero di cui essa diverrebbe un oggetto particolare ou un termine esteriore” (PD2, 235).

[43] PD2, 234.

[44] PD2, 234.

[45] Alla pagina successiva annoterà che “il s'agit de la réalité contenue en nous (ns. sottol.), de l'aspiration positive qui stimule le développement de la pensée distincte et de la vie morale en chaque homme” (PD2, 235).

[46] Ac, 290.

[47] Ac, 295; ancora: “ogni metafisica prepara e postula in qualche modo una prassi che ne costituisce il frutto”, 296; “essa propone al pensiero ciò che non è nulla di positivo o di reale, e glielo propone come più reale del reale, perché è quello che deve farsi”, 296; “è scienza non tanto di ciò che è, quanto di ciò che fa essere e divenire. L'ideale di oggi può essere il reale di domani”, 297.

[48] “à l'abstraite et chimérique adaequatio speculativa rei et intellectus se substitue la recherche méthodique de droit l'adaequatio realis mentis et vitae.” (PD2, 235).

[49] PD2, 236.

[50] Come sottolinea vigorosamente ne l'Action, non possiamo non volere, e non siamo noi a decidere che cosa volere, in ultima analisi: se anche facessimo tutto quello che vogliamo, ed ottenessimo tutto ciò che desideriamo, saremmo costretti a confessare che non abbiamo scelto noi di volere quel qualcosa. La nostra volontà “vuole, ma non ha voluto volere.” (Ac, 326). Cfr. sulla serietà totale di impegno per risolvere il problema della vita: “farò chiarezza su tutto. Se c'è qualcosa da vedere, ho bisogno di vederlo” (Ac, VII).

[51] Ed è questa la tesi centrale de l'Action.

[52] ”Vi è, nell'azione una e totale che compone (compose) la nostra persona, un principio interno che orienta, esige, giudica pensieri e atti frammentari (fragmentaires)" (PD2, 235).

[53] PD2, 237.

[54] PD2, 237.

[55] PD2, 237.

[56] PD2, 238.

[57] PD2, 238.

[58] PD2, 238.

[59] PD2, 239. “La pratica -spiega ancora Blondel- apporta alla riflessione un insegnamento che non si ottiene per nessun'altra via” (PD2, 239). Perciò “la philosophie ne commence vraiment que lorsque, non contente de se réferer à l'idée de l'action comme à son objet propre, elle se subordonne à l'action effective et devient pratiquante” (PD2, 239).

[60]Ciò facendo egli, come è stato più volte sottolineato (cfr. ad esempio il classico del Bouillard, Blondel et le Christianisme, Du Seuil, 1961), intende al contempo cercare una comprensione del fenomeno ateistico e lanciare un ponte verso l'umanità contemporanea che non si potrebbe più riconoscere in un Cristianesimo arroccato in false sicurezze gnoseologiche. Riteniamo però che questa componente dialogica non sia primaria, nel preciso senso che a nostro avviso Blondel non mira ad elaborare una tecnica di captatio benevolentiae per irretire il consenso dell'intelligenza laica: il suo pensiero non ci pare un espediente per così dire tattico, mosso da obbiettivi meramente apologetici, bensì un tentativo di comprendere la verità dell'esperienza umana, nella sua integralità e profondità, comune a tutti gli esseri umani.

[61] La terminologia usata non vuole denotare una negatività: l'influsso può essere positivo (come può essere negativo), ma è comunque un fattore inesorabile. Come diceva una grande maestro nella fede, docente alla Cattolica, il sentimento, l'affettività sono come una lente che se messa bene a fuoco aiuta a vedere meglio che a occhio nudo (mentre, se mal posizionata rende sfocata e distorta l'immagine percepita): nella fattispecie si tratta di una lente di cui l'occhio/intelletto non può strutturalmente far e a meno.

[62] Per questo del resto nella Scrittura si trovano esortazioni alla continua vigilanza, a tenere le lucerne accese: chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

[63] PD2, 233.

[64] Non intendiamo con questo termine significare alcun elemento di ingannevolezza, di falsità: semplicemente intendiamo rimarcare come l'aspetto immediatamente sensibile e intelligibile del finito non coincide con la sua verità più profonda, che ne è comunque il Centro e il Senso.

[65] Poiché comunque la verità è solo nella totalità, si potrebbe anche dire semplicemente “della verità”.

[66] PD2, 245.

[67] PD2, 245/6.

[68] PD2, 244/5.

[69] "C'est en se mariant à l'action que la pensée engendrera la connaissance vraie”, PD2, 245.

[70] PD2, 244.

[71] PD2, 245.

[72] PD2, 246

[73] Citiamo a memoria questa espressione da Maritain, a proposito della soggettività.

[74] Noi in effetti, lo abbiamo detto e lo vogliamo ribadire con forza, non ci siamo messi in una prospettiva essenzialmente storiografica, ma piuttosto teoretica.

[75] Se intesa, cioè, non come coglimento dell'essere nella sua concreta e totalizzante densità, ovvero come coglimento dell'essere come universale concreto, bensì come relativa pensabilità dell'essere, in senso analogico e trascendentale.

[76] é chiaro d'altronde che se Blondel negasse a tal punto il concetto di sostanza da mettere in dubbio la responsabilità drammatica della persona, distinta dal tutto creato e interpellata personalmente da Dio, negherebbe qualcosa di essenziale alla fede. Ma così, ovviamente, non crediamo possibile che sia.